VIAGGIO OLTRE I CANCELLI
di Lucia Cantoni
Sono
passati sessantanove anni da quel giorno, da quel 27 gennaio del 1945, nel
quale i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz furono finalmente
aperti. Il mondo intero poté spingere lo sguardo oltre quelle grate di ferro e
comprendere di quale orrore gli uomini fossero stati capaci.
Con
gli occhi della mente torno a quel momento. Immagino sia una rigida giornata
d’inverno, dal cielo grigio e tumefatto. La neve ammanta la terra e imbianca
ogni cosa, non abbastanza abbondante per coprire gli orribili misfatti che ivi
si sono consumati; utile piuttosto a purificare quel luogo di morte maledetta,
per donare nuova, fresca e impalpabile speranza ai pochi sopravvissuti. Sfarfallio
inquieto di brandelli di anima vilmente provati dalla bassezza umana.
Il
cancello si apre e cigola al passaggio dell’Armata Rossa, gli stivali dei
soldai affondano in quella miserabile terra di nessuno, squarciando il pallido
velo dell’ignoranza e portando alla luce la verità più terrificante. La stessa
che lascia sgomenti e atterriti, ma che non si può ignorare. Il filo spinato
circonda il campo, artigliando pungente il cuore; il dolore della prigionia
aleggia fitto come tetra nebbia su quel desolante paesaggio.
Freddo e fango e morte e
dolore.
Poi
alzo lo sguardo e vedo le fatiscenti catapecchie ammassate agli angoli del
campo. Sono di legno, marcescenti e umide; voluminose fessure tra le assi
lasciano entrare in quei nidi di paura i freddi refoli della stagione invernale.
Ancora qualche passo e una piccola porta si apre. Un gruppo di pallide ombre,
che un tempo non molto lontano dovevano esser state persone, vien fuori con
andatura caracollante. Sono vestiti di cenciosi stracci rigati, coperti da una
divisa di morte che ricade larga sulle membra troppo magre, ridotte a pelle e
ossa e nulla più… I visi sono stanchi
e smunti, i denti caduti e i capelli radi. Malnutrizione, stenti, maltrattamenti
hanno affaticato i corpi, ucciso gli spiriti, calpestato la dignità.
Un
paio di occhi scuri scrutano impauriti da dietro una delle consunte brandine.
Una massa di capelli bruni ancora folti, un visetto tenero e grandi iridi
lucenti. Il piccolo ha conosciuto solo terrore nella sua breve vita, ora si
aggrappa con tutte le sue forze al dolce ricordo delle carezze di sua madre,
unico amore, sola bontà che abbia compreso di un mondo corrotto. Gli è stata
portata via ogni cosa. É stato separato dal padre non appena scesi da quel treno
merci maledetto, che pareva trasportare bestie da macello, anziché uomini; quel
vagone che, a ogni metro percorso su quelle rotaie infernali, strappava loro
una stilla in più di umanità, sino a lasciare null’altro che gusci vuoti. La
madre, invece, è rimasta con lui fino a qualche giorno prima.
Chi è ancora in grado di
tenere il conto del tempo che passa?
L’hanno
portata via. Lui si è nascosto e l’ha vista scomparire dentro una di quelle
casette basse e rettangolari; dicevano che l’avrebbero portata a lavarsi nel
locale delle docce e il piccolo aveva gioito a quella notizia. Ricordava quanto
mamma fosse meravigliosa e sempre in ordine quando vivevano nella loro bella
casa in campagna! Profumata e con quei ricci splendenti… Ma lui, non l’ha più
rivista da quel momento, magari qualcuno, vedendola tanto bella, si è
innamorato di lei e l’ha portata con sé! No, mamma non l’avrebbe mai lasciato
lì, da solo!
Dei
soldati che parlano una lingua che non conosce, così diversa da quella di
quegli altri cattivi che lo sgridavano sempre, lo afferrano e lo spingono fuori
dalla catapecchia. Nevica, i fiocchi si sciolgono sulla sua pelle delicata e
inzaccherata di fango; lavano via, a piccole dosi, la sporcizia che segna il
piccolo sin dentro le ossa.
Arrivano
al cancello e il bambino alza lo sguardo su quelle lettere che non sa leggere,
ma che riconoscerebbe a occhi chiusi: “ARBEIT MACHT FREI”.
È
l’ultima volta che vede quel luogo di morte, ma ogni istante nel quale chiuderà
gli occhi, quella scritta gli apparirà chiara come impressa a fuoco sotto le
palpebre: eredità di un passato che ha strappato il suo spirito e divelto la
sua esistenza. Dovrà imparare a ricostruirla da solo, da quel momento in
avanti…
Torno
al presente e rabbrividisco. Tremo dinnanzi al freddo distacco della gente, al
timore di ciò che tutto questo significhi.
Non
dimentichiamo! Non lasciamo che l’orrore e il male che l’uomo è stato in grado
d’infliggersi, e continua a procurarsi, ci divenga indifferente! Combattiamo,
affinché nulla del genere possa mai ripetersi, ché mai un uomo possa arrogarsi
il diritto di calpestare la dignità di un altro uomo.
Non
c’è politica, né etnia, né ideale che possa giustificare un GENOCIDIO, una tale
barbarie, la morte dell’umanità. Combattiamo.
|
- FOTO DAL WEB - |