27/01/14

VIAGGIO OLTRE I CANCELLI



VIAGGIO OLTRE I CANCELLI

di Lucia Cantoni

Sono passati sessantanove anni da quel giorno, da quel 27 gennaio del 1945, nel quale i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz furono finalmente aperti. Il mondo intero poté spingere lo sguardo oltre quelle grate di ferro e comprendere di quale orrore gli uomini fossero stati capaci.
Con gli occhi della mente torno a quel momento. Immagino sia una rigida giornata d’inverno, dal cielo grigio e tumefatto. La neve ammanta la terra e imbianca ogni cosa, non abbastanza abbondante per coprire gli orribili misfatti che ivi si sono consumati; utile piuttosto a purificare quel luogo di morte maledetta, per donare nuova, fresca e impalpabile speranza ai pochi sopravvissuti. Sfarfallio inquieto di brandelli di anima vilmente provati dalla bassezza umana.
Il cancello si apre e cigola al passaggio dell’Armata Rossa, gli stivali dei soldai affondano in quella miserabile terra di nessuno, squarciando il pallido velo dell’ignoranza e portando alla luce la verità più terrificante. La stessa che lascia sgomenti e atterriti, ma che non si può ignorare. Il filo spinato circonda il campo, artigliando pungente il cuore; il dolore della prigionia aleggia fitto come tetra nebbia su quel desolante paesaggio.
Freddo e fango e morte e dolore.
Poi alzo lo sguardo e vedo le fatiscenti catapecchie ammassate agli angoli del campo. Sono di legno, marcescenti e umide; voluminose fessure tra le assi lasciano entrare in quei nidi di paura i freddi refoli della stagione invernale. Ancora qualche passo e una piccola porta si apre. Un gruppo di pallide ombre, che un tempo non molto lontano dovevano esser state persone, vien fuori con andatura caracollante. Sono vestiti di cenciosi stracci rigati, coperti da una divisa di morte che ricade larga sulle membra troppo magre, ridotte a pelle e ossa e nulla più… I visi sono stanchi e smunti, i denti caduti e i capelli radi. Malnutrizione, stenti, maltrattamenti hanno affaticato i corpi, ucciso gli spiriti, calpestato la dignità.
Un paio di occhi scuri scrutano impauriti da dietro una delle consunte brandine. Una massa di capelli bruni ancora folti, un visetto tenero e grandi iridi lucenti. Il piccolo ha conosciuto solo terrore nella sua breve vita, ora si aggrappa con tutte le sue forze al dolce ricordo delle carezze di sua madre, unico amore, sola bontà che abbia compreso di un mondo corrotto. Gli è stata portata via ogni cosa. É stato separato dal padre non appena scesi da quel treno merci maledetto, che pareva trasportare bestie da macello, anziché uomini; quel vagone che, a ogni metro percorso su quelle rotaie infernali, strappava loro una stilla in più di umanità, sino a lasciare null’altro che gusci vuoti. La madre, invece, è rimasta con lui fino a qualche giorno prima.
Chi è ancora in grado di tenere il conto del tempo che passa?  
L’hanno portata via. Lui si è nascosto e l’ha vista scomparire dentro una di quelle casette basse e rettangolari; dicevano che l’avrebbero portata a lavarsi nel locale delle docce e il piccolo aveva gioito a quella notizia. Ricordava quanto mamma fosse meravigliosa e sempre in ordine quando vivevano nella loro bella casa in campagna! Profumata e con quei ricci splendenti… Ma lui, non l’ha più rivista da quel momento, magari qualcuno, vedendola tanto bella, si è innamorato di lei e l’ha portata con sé! No, mamma non l’avrebbe mai lasciato lì, da solo!
Dei soldati che parlano una lingua che non conosce, così diversa da quella di quegli altri cattivi che lo sgridavano sempre, lo afferrano e lo spingono fuori dalla catapecchia. Nevica, i fiocchi si sciolgono sulla sua pelle delicata e inzaccherata di fango; lavano via, a piccole dosi, la sporcizia che segna il piccolo sin dentro le ossa.
Arrivano al cancello e il bambino alza lo sguardo su quelle lettere che non sa leggere, ma che riconoscerebbe a occhi chiusi: “ARBEIT MACHT FREI”.
È l’ultima volta che vede quel luogo di morte, ma ogni istante nel quale chiuderà gli occhi, quella scritta gli apparirà chiara come impressa a fuoco sotto le palpebre: eredità di un passato che ha strappato il suo spirito e divelto la sua esistenza. Dovrà imparare a ricostruirla da solo, da quel momento in avanti…
Torno al presente e rabbrividisco. Tremo dinnanzi al freddo distacco della gente, al timore di ciò che tutto questo significhi.
Non dimentichiamo! Non lasciamo che l’orrore e il male che l’uomo è stato in grado d’infliggersi, e continua a procurarsi, ci divenga indifferente! Combattiamo, affinché nulla del genere possa mai ripetersi, ché mai un uomo possa arrogarsi il diritto di calpestare la dignità di un altro uomo.
Non c’è politica, né etnia, né ideale che possa giustificare un GENOCIDIO, una tale barbarie, la morte dell’umanità. Combattiamo.

- FOTO DAL WEB -

1 commento:

  1. Complimenti per il blog...ti seguo con piacere...tua nuova follower
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